“Io che non vivo più di un’ora senza te”…sarà forse dipendenza affettiva?

Pino Donaggio, cantava questa canzone a Sanremo nel 1965, canzone dedicata a tantissimi amori anni ’70 ’80 ’90 ecc, e ispirando, diversi anni dopo, una pubblicità di una nota (frase cuscinetto perché non ricordo la marca) brand di the o tea. Insomma Pino, si sarà mai chiesto se la sua fosse o meno dipendenza affettiva?

 

E a proposito di dipendenza, che vorrà mai dire dipendere? È una cosa brutta?

 

Essere indipendenti è una condizione impossibile e non auspicabile, dipendiamo tutti da qualcosa, fin da piccoli per nutrirci e muoverci, e da grandi continuiamo ad aver bisogno di conferme, riconoscimenti, cibo, aria e tanto altro. 

Ci innamoriamo, ci leghiamo, instauriamo relazioni, condividiamo e viviamo “con” l’altro momenti, esperienze, sogni e paure, fondendoci con l’altro e nell’altro, cuori qua, cuori là, e fin qui, tutto fila.

Succede però a un certo punto che in questo processo di “fusione” con l’altro, il/la partner e conseguentemente la vita di coppia diventano quasi una condizione, unica e necessaria per la propria esistenza.

 

 

Campanelli d’allarme

 

Ci sono alcune caratteristiche che accomunano le persone con una dipendenza affettiva dal partner:

 

§  La paura di essere abbandonati o paura della fine della relazione;

 

pensare di vivere senza di lui/lei, diventa un terrore insostenibile contro cui non si può combattere, perché prevalgono pensieri intrusivi come “non sarebbe la stessa cosa”, “non ce la potrei fare”, “niente avrebbe senso”, “non varrebbe la pensa vivere”, “cosa farei senza?”

 

§  Trascurare i propri bisogni e mancanza di interesse per se stessi;

 

diventa difficile crearsi degli spazi per coltivare i propri interessi, passioni, impegnarsi nel proprio lavoro, perché tutte le energie sono canalizzate nel prendersi cura dell’altro, con convinzioni quali “sono niente senza di te”, “prima penso a te poi a me”. Ci si isola dagli altri che non siano la persona amata, perché non c’è tempo, non c’è voglia, o comunque gli amici/parenti/colleghi non sono interessanti abbastanza.

 

§  Mettere l’altro al centro della propria esistenza;

 

tutto avviene in funzione della persona amata, l’organizzazione di una giornata, la gestione del tempo libero, decidere dove andare, cosa mangiare, quale film vedere al cinema, prendersi cura dei bisogni dell’altro come se fossero più importanti dei bisogni propri, fare dei regali all’altro più di quanti non se ne faccia a se stessi.

 

§  Gelosia morbosa;

 

qualsiasi segnale dal mondo esterno diventa un “pericolo” pensando di poter perdere la persona amata, le grandi insicurezze con cui ci si confronta non reggono il paragone con l’altro/altra di turno, e ci si sente un po’ come il ragazzino nel film Trecento, convinti di avere “un’accresciuta percezione delle cose”, pensando di prevedere catastrofi e tradimenti.

 

§  Pensieri negativi verso se stessi;

 

pensare di essere sbagliati rispetto agli altri, cattivi in un mondo di buoni, meritevoli di torti o trascuratezze per proprie colpe, insomma “è sempre colpa mia”.

 

§  Paura dei cambiamenti;

 

un nuovo lavoro, un viaggio, nuove amicizie, una macchina nuova, diventano motivi di ansia, minacce all’equilibrio della coppia, qualcosa che può sfuggire al controllo e destare sospetti generando un’analogia tra il pensiero di “cambiamento” e quello di “perdita”.

 

§  Identificazione con la persona amata;

 

C’è la sensazione che i suoi interessi siano i propri, che ci siano tante cose in comune, tantissime, anzi proprio tutte!

La dipendenza affettiva è donna?

 

Diciamo che stando allo studio di Miller [1] per il 99% lo è.

Molto comunemente a dipendere da un uomo sono proprio le donne, donne fragili, alla continua ricerca di un amore che le gratifichi per sentirsi meno inadeguate; donne che elemosinano amore, che convivono con il rifiuto, la svalutazione, l’umiliazione, nella magica ipotesi di poter cambiare l’altro e di avere amore da chi, ahimè, ama solo se stesso. Sono donne che si colpevolizzano per il dolore inflitto dall’altro perché si sentono sbagliate e meritevoli di critiche e accuse, che vogliono salvare un uomo perché “se io ti salverò tu mi amerai”.

 

Sono piccole donne come Wendy, che fa da mamma ai tre fratellini e che si occupa di conservare e cucire l’ombra di Peter Pan; la “crocerossina” che accudisce, protegge, compiace, a costo di sacrificare i propri bisogni, e custodendo quei doveri di moglie, madre, figlia; aneddoto, questo, di un’epoca socio-culturale dove la donna, dedita al servizio e al sacrificio, era proprio come lei.

 

Sono donne che incontrano uomini disgraziati, magari dipendenti da altre cose (sostanze, alcool, gioco d’azzardo), quelle donne che la Norwood[2] vorrebbe aiutare (o salvare? Niente il lupo perde il pelo ma non la sindrome da crocerossina!). Nel suo libro “Donne che amano troppo” analizza proprio questa ossessione verso un uomo distruttivo di cui, le donne dipendenti, credono di essere innamorate, e invece ne sono legate dalla PAURA, “paura di restare sole, paura di non essere degne di amore e di considerazione, paura di essere ignorate, o abbandonate, o annichilite”, e quando vedono che la strategia non funziona, amano di più, amano “troppo”.

 

Queste donne sono principesse, come Victoria[3] che alla ricerca del principe azzurro, fa i conti col Dott. Sorriso e il Sig. Nascosto, in un sogno che diventa incubo, pensando di doversi correggere per essere perfetta in tutto per il suo uomo, prima di iniziare il viaggio verso il sentiero della verità.

 

Sono donne che non sanno stare sole, condizione che invece la Castoldi[4] vivamente propone, come passaggio obbligato per imparare a dialogare con i propri desideri e bisogni più profondi, appunto, in solitudine.

 

E se fosse uomo?

 

Molti studiosi continuano a chiedersi se il Romantic Love possa essere una dipendenza naturale, e qualcuno ha risposto che si, lo è (Frascella, 2010) [5], soffermandosi in particolare sul concetto di “astinenza” da amore, come se ci si astenesse dall’uso di sostanze. In questi casi, in assenza dell’amore da cui si dipende, il cervello attiva le stesse regioni neuronali che vengono attivate in casi di astinenza da sostanze (Rosenberg and Feder, 2014)[6].

 

Quindi, se ci affidiamo alla scienza, la predisposizione da mammiferi a creare legami di dipendenza, non ha sesso.

 

Se invece ci affidiamo alla cronaca nera, nel caso di “cuori spezzati” di persone con dipendenza affettiva, gli epiloghi potrebbero essere lo stalking, depressione, suicidio, omicidio, e altri “crimini passionali” che vedono più spesso, come protagonisti, gli uomini.

 

 

Perché la terapia?

 

Il primo passo per superare una dipendenza affettiva, come tutte le altre dipendenze, è ammetterne la tossicità, il proprio malessere, realizzare di avere un problema.

 

Un percorso di psicoterapia diventa dunque un’occasione per prendere contatto con i propri bisogni, per osservarsi nelle relazioni, e per costruire legami autentici approfondendo e cambiando alcuni aspetti di Sé…infondo non tutti incontrano per caso il gufo parlante Dott. Henry Herbert Hoot, medico dei cuori spezzati, come la principessa Victoria, quindi meglio darsi da fare e rivolgersi a un professionista, perché si sa, la felicità è una scelta.

 

 

 

Fonti:

[1] Miller (1994) Donne che si fanno male, Feltrinelli

[2] Norwood R. (1989), Donne che amano troppo. Milano, Freltrinelli.

[3] Grad M. (1998), La Principessa che credeva nelle favole, Come liberarsi del proprio principe azzurro. Casale Monferrato, Piemme.

[4] Castoldi I. (2001), Meglio sole. Perché è importante bastare a se stesse. Milano, Feltrinelli.

[5] Frascella J., Potenza M. N., Brown L. L., Childress A. R. (2010). Shared brain vulnerabilities open the way for nonsubstance addictions: caving addiction at a new joint? Ann. N. Y. Acad. Sci. 1187 294–315.

[6] Rosenberg K. P., Feder L. C. (2014). “Forward to: behavioral addictions,” in Criteria, Evidence and Treatment eds Rosenberg K. R., Feder L. C., editors. (London: Elsevier; ) 13.